Storia di Calascio
Mentre l’intera storia di Calascio comincia dall’età della pietra e si estende fino al 20° secolo, l’opera narrativa qui di seguito riassume il modo in cui per secoli nel passato si è vissuto nel paese.
D’Aburzzo, Volume VIII, No. 30 (1995).
Calascio: Cuore di luce e magia di Pietra
Testo di Franca Fulgenzi
Il punto più alto della antica Baronia di Carapelle è una rocca di pietre bianche, innalzata intorno alle torri, un monito in mezzo alla scena nuda della montagna calcarea, arida, silenziosa, concessa solo al volo ampio del falco, che di tanto in tanto sembra abbassarsi fino all'improvvisa fioritura delle ginestre che esplodono profumi gialli lungo il costone.
Infondo alla strada che sale come una traccia bianca dalla piana di Navelli, Calascio è un punto chiuso e segreto. Il cammino avanza tra le memorie del millennio passato; di monaci orgogliosi e di baroni crudeli, di imperatori generosi e di pastori, padroni della vita e della morte. Salendo da Capestrano a sinistra San Pietro ad Oratorium, e più sopra il recinto di Bominaco, baluardi dell'opera benedettina, sospesa a metà tra l'economia agraria e pastorale del castrume la contemplazione mistica della voce di Dio, a destra Santa Maria dei Cintorelli e il ricordo delle transumanze vissute come dimensione dell'esistenza e in alto le terre di Carapelle, ognuna un grumo di case appoggiate, dove laroccia si allarga in un breve pianoro. La suggestione a trasformare il viaggio in un ritorno al passato è forte, tanto più che la strada, allontanandosi della viabilità contemporanea, recupera forme di vertiginoso silenzio. Tornano alla mente le storie normanne di Roberto, candidato alla successione di Guglielmo II d'Altavilla, e quelle di Riccardo Acquaviva e Matteo del Plessiaco, seguaci di Carlo d'Angiò. E su tutte a leggia la vicenda di Jacovella. Riemergono gli uomini della sua vita, Iacopo Caldora, Leonello Aclozzamora, capitan i forti, di cui Jacovella tenne il cuore in una mano e più ancora torna l'ingiuria di Ruggerotto, figlio padrone a cui la madre non oppose altra resistenza se non uno sdegnato silenzio.
Ma è una suggestione scontata e prevedibile, la stessa, del resto che in questi ultimi anni, ha trasformato le strade e la rocca in uno studio di ripresa en plaine aire. Calascio ha prestato le scene alla favola magica di Lady Hawkee alla Piovra, fortunato e interminabile drammone televisivo. Il vento, verso la Madonna della Pietà, alza tra la terra e il cielo un filo impercettibile di polvere, come una materiale linea d'orizzonte che segna i confini dell'immaginario e della fisicità: baroni e attori recitano a soggetto su un palcoscenico mitico. Calascio è il punto d'arrivo: 1200 metri di altitudine, freddo d'inverno, fresco d'estate, su un pianoro di pietra grigia affacciato sulla vasta distesa di campi, una volta coltivati a grano, patate, orzo, a tutte le colture tipiche della montagna e in primavera pieni di mandorli in fiore che promettono un ricco raccolto che ora nessuno raccoglie. L'abitato è uno spontaneo susseguirsi di case di pietra, a due o più piani, case torri, il cui spazio terraneo fino a poco tempo ospitava ancora la piccola ricchezza armentizia ad uso familiare, o le botteghe dei mercanti e degli artieri. Ad ogni piazza le case signorili e le chiese.
Ai margini del nucleo urbano i conventi e gli oratori. Verso il 1530, ai tempi di Carlo V, la numerazione dei fuochi era di 339 a Calascio e 201 sulla Rocca, che corrispondevano all' incirca a 1491 abitanti per il paese e 884 per la fortificazione. Era l'epoca d'oro della Mena delle pecore in Puglia. Le grandi famiglie cominciavano a formare i patrimoni che avrebbero dato vita qualche secolo dopo, alla aristocrazia intellettuale di stampo partenopeo, che dai centri montani avrebbe fatto da volano all'intero Abruzzo. In seguito i terremoti, le pestilenze, le carestie avrebbero ridotto via vi ala popolazione. Ma intanto Calascio si arricchiva di solidi palazzi e ogni Santo aveva il suo prezioso altare. Innanzi tutto San Leonardo, la più antica tra le chiese del paese, posta sulla strada che conduce a Castel del Monte. Edificata o rinnovata nel 1263, come afferma un'iscrizione posta sulla base del campanile, nel diciottesimo secolo aveva un reddito annuo pari a 12 ducati, vi si celebrava una festa ogni 6 novembre, ed era un luogo di ospizio, una specie di ricovero per pellegrini e per i viandanti, ma non godeva dell'immunità ecclesiastica. E poi quella di San Nicola di Bari, protettore del paese e santo pastorale per eccellenza. Nel settecento la devozione delle famiglie ricche vi eresse e dotò, lungo le pareti laterali, sei cappelle, una più splendida dell'altra.
Oggi è un vero scrigno di opere d'arte a cominciare dalla porta lignea intagliata con le scene dell'Antico Testamento e della vita di San Nicola, fino ai confessionali, al fonte battesimale, all'altar maggiore anch'essi di legno intagliato e l'Annunciazione di Teofilo Patini che campeggia sul soffitto. Anche il ceto rurale volle i suoi protettori. Prospiciente l'aia comune, nella parte ovest dell'abitato, fu edificata nel 1645 la chiesa di Sant'Antonio Abate. Presto si arricchì di altri altari, tra cui quelle delle Anime del Suffragio. Dopo due secoli di abbandono Patini, contemporaneamente ai lavori di restauro, l'abbellì con una emozionante rappresentazione delle Tentazioni di Sant'Antonio nel deserto, ora sostituita con una copia e seguita da Patrignani, mentre l'originale fa parte della collezione privata Frasca. Chiese anche sulla Rocca; mitiche come del resto è l'aria di queste pietre. La Madonna delle Grazie, elementare e semplice, con la sua Vergine miracolosa e un arcaico San Michele armato, scolpito in pietra locale da un artista pastore, come forse l'agnello incastonato sul muro esterno che ricorda nelle forme l'antico stemma comunale.
E poi, a metà strada tra il paese e il castello, la Madonna della Pietà, a pianta ottagonale che pare sia stata costruita nel 1451, a ricordo di un sanguinoso scontro, avvenuto nel luogo, tra una banda di briganti provenienti dallo Stato pontificio e i soldati dei Piccolomini. Oggi per l'ufficio liturgico basta la parrocchiale, dove da quasi sessant'anni, giorno per giorno, don Giovanni Giallonardo, amministrando battesimi, matrimoni e funerali, è divenuto una istituzione. Le altre chiese sono, come si è detto, soprattutto uno stupefacente museo, un indizio, per rileggere la storia abruzzese. Ma Calascio non è solo un paese d'arte, un paese morto e di pietre. E non è nemmeno un paese finto, come un fondale pittoresco e senza spessore per rappresentare la visione cinematografica della vita. Calascio ha un passato, un presente e un futuro e per queste tre componenti va considerato ed apprezzato.
É il paese dei ragazzi che ogni mattina vanno a scuola a L'Aquila con la corriera e poi d'estate fanno da guida ai turisti che vogliono visitare la Rocca, è il paese di Claudio Fulgenzi, mugnaio e storico. 88 anni di memorie e ricordi. Di Calascio sa proprio tutto. Conosce il valore di ogni pietra, è disposto a raccontare i misteri, i segreti, le vicende che i secoli hanno essiccato e rarefatto. La sua casa è un archivio di antiche carte, di immagini, di oggetti. In mezzo a tutto quello che gli altri hanno perduto e dimenticato, Claudio si muove con l'insostenibile leggerezza della memoria e ordina i ricordi e le storie in un affresco generale che attraversa i secoli e recupera il tempo. Calascio è la piccola patria di Domenico Ciccone che tutti chiamano Mimì.
Ogni mattina si alza e porta il gregge in montagna. I guaglioni che gli badano le morre vengono dal di là del mare. E non sembri strano che in questi tempi di villaggio globale dall'Arcadia dei miti ritorni il nomadismo bucolico. Niente più micisca essiccata al sole e olio dosato nel corno di bue. Mimì mangia a casa con gli stessi tempi di un impiegato di banca, ma la scansione del tempo e dello spazio è un'altra. L'arte di mazza ha il cuore antico e immutabile: il terreno assegnato al pascolo si chiama ancora defensa, a settembre le fellate si ingravidano e i cordeschi nascono tra gennaio ed aprile e un possibile rifugio improvviso è sempre la Rocca. Giù la Rocca, il punto più alto della Baronia, con le sue torri cilindriche e bastionate, assurte ormai a simbolo della montagna e della sua gente. Le prime notizie risalgono al secolo XII, quando i nuclei di alta quota avevano acquistato una caratteristica militare di borgo fortificato. Infatti l'elemento più antico sembra essere la parte centrale a base quadrata della torre, la cui funzione originaria potrebbe essere stata quella di avvistamento. Intorno ad essa si sviluppò il borgo che raggiunse la massima espansione ai tempi di Leonello Acclozzamora nella seconda metà del XIV secolo. Tutto l'apparato difensivo è costituito da tre elementi: la cinta muraria, lo stretto tessuto urbano e la Rocca. Nonostante la rovina causata dall'abbandono e dagli anni, l'insediamento abitativo mantiene i caratteri originali. Restano le strade coperte che collegavano le case-torri che hanno generalmente un piano seminterrato, coperto da una volta di pietra, mentre i solai dei piani superiori sono in legno. I vari livelli sono collegati da scale esterne e la muratura è quella tipica dell'Abruzzo aquilano, realizzata con pietrame legato con malta e rafforzata agli angoli da blocchi squadrati. La Torre sorge nel vertice nord dell'area difensiva, in posizione dominante rispetto all'abitato.
Definita erroneamente castello, è in realtà una torre cintata o torre castellata di avvistamento, risalente al X secolo, come numerose altre torri della zona reciprocamente visibili ed utilizzate per ritrasmettere segnali di pericolo. Costruita in due diversi tipi di muratura, la parte inferiore, fino all'altezza di 8 metri, è in blocchi di pietra squadrati, tali da costituire una struttura molto solida; la parte superiore è leggermente rientrata e con due feritoie ad arciera. La torre ha subito nel tempo molte trasformazioni, fino alla realizzazione del recinto quadrato con i quattro torrioni circolari ad angolo. I racconti, sempre a metà tra storia e leggenda, parlano di tesori nascosti, camminamenti segreti, collegamenti strategici addirittura con i castelli del mare e in effetti le analogie della struttura della torre di Rocca Calascio con i castelli Piccolomini di Celano, di Capestrano, di Ortucchio, di Balsorano e con il castello aragonese di Ortona, rafforzano le ombre e le supposizioni. Del resto la Rocca è un'isola del desiderio: niente telefono, niente luce, niente acqua.
A Calascio invece, in mezzo alla piazza principale c'era una fontana monumento e la sua storia è lunga e bizzarra e si intreccia con quella di donna Filonilla. Si deve sapere, infatti, che avere l'acqua è sempre stato il desiderio dei calascini. La natura carsica del terreno assorbe l'acqua dalle cime della catena del Gran Sasso ed impedisce, in basso, la formazione di sorgenti perenni. Il paese ha sempre sofferto la sete e la gente per molto tempo è stata costretta a rifornirsi nel laghetto vicino al paese. Unico mezzo di approvvigionamento entro il centro abitato erano le cisterne che raccoglievano la neve e l'acqua piovana con un sistema di canale in pietra e di pozzetti di decantazione. Naturalmente solo le case ricche e aristocratiche possedevano una cisterna; e tutti gli altri erano spesso costretti a pagare. Ancora oggi nel lessico familiare resta l'espressione di casa con la cisterna, per indicare un fabbricato provvisto di tutte le comodità. Subito dopo l'unità d'Italia il Consiglio comunale si propose di risolvere il problema, e cominciò ad effettuare ricerche nel territorio per trovare una sorgente.
Finalmente ne fu individuata una presso le falde del monte Prena ad una altitudine di 2600 metri. L'incarico del lavoro fu affidato all'architetto Donato Ricci, ma il costo di tutta l'operazione era troppo alto per le casse comunali. Quando l'acqua sembrava un miraggio irraggiungibile, donna Filonilla Frasca, la cui famiglia aveva accumulato enormi ricchezze con l'attività armentizia e entro il cui palazzo, come segno di distinzione e di opulenza, esistevano numerose cisterne alle quali i calascini si erano spesso recati ad attingere l'acqua, magari pagandola, offrì generosamente 40.000 lire, una vera fortuna per quei tempi. A coprire tutte le spese, poi contribuirono le rimesse degli emigranti, le donazioni delle altre famiglie e il lavoro gratuito dei calascini. Il primo serbatoio fu realizzato a Fonte Canala alle pendici del Monte Prena, dove a volte nel mese di giugno c'è ancora la neve e dove gli operai si fermarono anche la notte a sorvegliare i lavori, per paura di temporali e alluvioni. Con una conduttura che, attraverso saliscendi e vallette, è lunga circa 20 chilometri l'acqua arrivò a Calascio nel 1911. Per l'occasione fu costruita la fontana monumentale, e fu scritto un inno di lode all'acqua, a donna Filonilla e all'operosità della gente di montagna.
Oggi le cisterne sono una curiosità archeologica e tutte le case di Calascio hanno l'acqua. La cucina dove Vittoria Antonacci lavora il formaggio è antica e suggestiva. La fornacella, il callaro, le sacche dei cagli, le fiscelle, gli assi per l'essiccazione, tutto è restato come un tempo, ma pure tutto è cambiato. C'è l'acqua. Vittoria apre il rubinetto, si lava le mani e comincia a stringere la pasta appena solidificata. Il suo universo immaginario è quello dei Santi e dei racconti. Come quello di Re Marrone. Ai tempi che le fate filavano sotto le querce- dice Vittoria- e quando ritornavano alle loro case segrete tessevano una tela sottile sottile, sopra un telaio con i pettini d'oro e i licci d'argento, a Rocca Calascio viveva Re Marrone. Egli possedeva trentasei castelli in Capitanata e cento torri nella Baronia di Carapelle. Era padrone del gregge più bello che si fosse mai visto da quelle parti, pecore, montoni , agnelli, formavano più di cento morre a capo delle quali stavano massari giganti, alti più di tre canne, seguiti da guaglioni con gli occhi neri e i corni d'osso a tracolla, pieni di olio e di sale. Il caciere lavorava il formaggio in un caldaio grande come la cupola di san Nicola di Bari. Il formaggio di Re Marrone era il più saporito di tutte le masserie della montagna e la lana delle sue pecore era la più bianca e leggera, tanto che, quando era tempo di fiere, i mercanti partivano da Napoli per venire a comprare le sue pezze e le sue ricotte.
Il Re del Portogallo, ogni anno, inviava alla Rocca i suoi tre figli maschi, con un seguito di paggi e cavalieri, per trattare la tosatura di maggio, la più preziosa e l'unica degna di riempire i cuscini, le coltri e i materassi del letto regale. A San Marco, invece, era padrone il Re delle corone. Anche lui aveva torri e castelli, soldati e campieri, masserie e casali, pecore e muli, ma non si godeva niente delle sue ricchezze perché era invidioso della fortuna di Re Marrone. Un giorno Re delle Corone trovò la scusa per venire a diverbio: e per una questione di pascoli e di precedenze iniziò contro Re Marrone una triste guerra con violente battaglie e lunghi assedi che durarono anni e anni. Il Re Marrone resistette chiuso nel castello per più di dieci anni, durante i quali consumò tutte le sue ricchezze accumulate nei magazzini. Dapprima si mangiò le ricotte, dopo il formaggio, dopo ancorai cavalli e i muli, infine le pecore e gli agnelli.
Ormai non gli era rimasto proprio niente da mangiare, nei granai era finito il grano, i mulini non avevano più nulla da macinare e le cisterne erano asciutte, anche perché non pioveva più da molti mesi, tanto che anche l'erba si era seccata nei prati. I soldati si erano fatti vecchi ed avevano tutti le barbe lunghe e bianche. Il Re Marrone allora ebbe un'idea. Chiamò a raccolta tutti i roccolani. Fece mungere le pecore rimaste, ma il latte era sempre troppo poco. Allora chiamò le donne che allattavano i figli e le pregò di spremere nel caldaio tutto il latte del loro seno. Il caciere, dal canto suo, si mise d'impegno e riuscì a preparare dodici pezze di formaggio, grandi e rotonde, come si erano viste solo nei tempi migliori. Re Marrone, chiamò tutti i soldati sulla torre più alta e comandò che rotolassero a valle le forme di cacio, mentre donne vecchi e bambini si davano un gran da fare ad andare su e giù per i camminamenti come se ci fosse una festa.
A quella vista Re delle Corone non credeva ai suoi occhi. Anche la sua gente cominciava a dare fondo alle provviste e invece la Rocca aveva ancora tanti viveri e risorse che la gente poteva gettare il formaggio a valle. Pensò che re Marrone era invincibile e poiché i suoi soldati erano ormai stanchi e allo stremo, tolse l'assedio e mandò ambasciatori per trattare la pace. Il formaggio di Vittoria, che sa di pascoli e di fiabe, nutre il corpo e lo spirito. La magia di Calascio, paese posto a 1200 metri di altitudine, tra Costa del Preto e Piano di Vuto, è la capacità di trasformare il passato in presente e futuro.